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martedì 26 marzo 2013

Secondo movimento della settima sinfonia di Beethoven

Ludwig van Beethoven
[1770-1827]
Sinfonia n. 7 in La maggiore
op. 92
Anno di composizione: 1811
 

 Poco sostenuto - Vivace
Allegretto
Presto
Allegro con brio





La prima esecuzione della Settima Sinfonia in La maggiore di Beethoven, avvenuta a Vienna l’8 dicembre 1813 in un concerto a favore dei soldati feriti nella battaglia di Danau nell’ottobre precedente, fu un trionfo, al punto che il celeberrimo Allegretto dovette essere ripetuto. Composta ben sei anni dopo la Pastorale, la Settima sintetizza felicemente un periodo nel quale il compositore torna a valorizzare elementi squisitamente costruttivi quali la polifonia e l’elaborazione tematica, attenuando progressivamente le domande “contenutistiche” e i violenti contrasti dialettici di alcuni lavori precedenti. Giovanni Carli Ballola ha efficacemente definito la Settima come «il coronamento di questa gioiosa “libertà” creativa, acquistata attraverso il superamento della fase cruciale dell’individualismo eroico e dell’urgenza contenutistica».

In questo post  si propone l'ascolto del secondo movimento, il misterioso e celeberrimo Allegretto, basato sull’elementare disegno ritmico dattilo-spondeo, immerso in un clima onirico. Il movimento è aperto e chiuso da un accordo dolente in la minore. Il primo tema, basato su una melodia dal ritmo marcato, quasi in passo di marcia, è ripetuto più volte progressivamente arricchito nel contrappunto. Il secondo tema, in maggiore, ha andamento cantabile.
 (testo tratto dal libretto di sala dell’Orchestra del Teatro di San Carlo e da Wikipedia).






lunedì 25 marzo 2013

Carlos Drummond de Andrade tradotto da Tabucchi

 Ad un anno dalla  scomparsa del grande scrittore Tabucchi, pubblico una sua traduzione del poeta brasiliano Carlos Drummond de Andrade. Di tutto è rimasto un poco è anche il titolo del nuovo libro dedicato a Tabucchi da Feltrinelli con una raccolta di suoi scritti inediti sulla letteratura e sul cinema.
anteprima del libro

Residuo 
(Carlos Drummond de Andrade)

Di tutto è rimasto un poco,
Della mia paura. Del tuo ribrezzo.

Dei gridi blesi. Della rosa
è rimasto un poco.

È rimasto un poco di luce
captata nel cappello.
Negli occhi del ruffiano
è restata un po' di tenerezza
(molto poco)

Poco è rimasto di questa polvere
che ti coprì le scarpe
bianche. Pochi panni sono rimasti,
pochi veli rotti,
poco, poco, molto poco.

Ma d'ogni cosa resta un poco.
Del ponte bombardato,
delle due foglie d'erba,
del pacchetto
- vuoto - di sigarette, è rimasto un poco

Che di ogni cosa resta un poco.
È rimasto un po' del tuo mento
nel mento di tua figlia.

Del tuo ruvido silenzio
un poco è rimasto, un poco
sui muri infastiditi,
nelle foglie, mute, che salgono.

È rimasto un po' di tutto
nel piattino di porcellana,
drago rotto, fiore bianco,
di rughe sulla tua fronte,
ritratto.

Se di tutto resta un poco,
perché mai non dovrebbe restare
un po' di me? Nel treno
che porta a nord, nella nave,
negli annunci di giornale,
un po' di me a Londra,
un po' di me in qualche dove?
nella consonante?
nel pozzo?

Un poco resta oscillando
alla foce dei fiumi
e i pesci non lo evitano,
un poco: non viene nei libri.

Di tutto rimane un poco.
Non molto: da un rubinetto
stilla questa goccia assurda,
metà sale e metà alcool,
salta questa zampa di rana,
questo vetro di orologio
rotto in mille speranze,
questo collo di cigno,
questo segreto infantile...
Di ogni cosa è rimasto un poco:
di me; di te; di Abelardo.
Un capello sulla mia manica,
di tutto è rimasto un poco;
vento nelle mie orecchie,
rutto volgare, gemito
di viscere ribelli,
e minuscoli artefatti:
campanula, alveolo, capsula
di revolver... di aspirina.
Di tutto è rimasto un poco.
E di tutto resta un poco.
Oh, apri i flacone di profumo
e soffoca
l'insopportabile lezzo della memoria.

Ma di tutto, terribile, resta un poco,
e sotto le onde ritmate,
e sotto le nuvole e i venti
e sotto i ponti e sotto i tunnel
e sotto le fiamme e sotto il sarcasmo
e sotto il muco e sotto il vomito
e sotto il singhiozzo, il carcere, il dimenticato
e sotto gli spettacoli e sotto la morte in scarlatto
e sotto le biblioteche, gli ospizi, le chiese trionfanti
e sotto te stesso e sotto i tuoi piedi già rigidi
e sotto i cardini della famiglia e della classe,
rimane sempre un poco di tutto.
A volte un bottone. A volte un topo.

(traduzione di Antonio Tabucchi)

domenica 10 marzo 2013

Domenico Scarlatti




Vita

Nacque a Napoli nell’abitazione di Via Toledo, il 26 Ottobre del 1685. Figlio del famoso compositore Alessandro e di Anna Maria Ansalone. Fu il sestogenito di dieci figli, visse da subito immerso nel clima musicale, infatti oltre al padre erano musicisti gli zii paterni, e i fratelli. Nel 1701, a soli sedici anni, divenne organista della Cappella Reale di Napoli e nel 1702 si trasferì a Firenze con il padre, per un breve periodo alla corte di Ferdinando III de’ Medici. Studiò con il padre e si perfezionò a Roma in clavicembalo con B. Pasquini e F.Gasparini e quando quest’ultimo si trasferì a Venezia per il posto di maestro della Pietà, lo seguì per continuare gli studi di perfezionamento. A Venezia ebbe contatti anche con Vivaldi ed Haendel. Nel 1705 risiederà a Roma, sempre con il padre che divenne vice maestro di cappella della basilica di S. Maria Maggiore, mentre il giovane Domenico divenne maestro di cappella della Regina Maria Cosimira di Polonia, a quel tempo in esilio a Roma. Il suo compito presso la regina era anche di comporre opere per il teatro di corte (Palazzetto Zuccari, presso Via Sistina). E’ documentata la gara che, a Roma, il Cardinale Ottoboni organizzò tra Scarlatti ed Haendel e dalla quale uscì vincitore il primo al clavicembalo e il secondo all’organo. Nel 1713  divenne vice maestro alla Cappella Giulia, incarico che manterrà fino a quando nel 1719 si reca a Lisbona alla corte del Re di Portogallo Guglielmo V. Nel 1724 rientrò in Italia e nel 1725 avvenne la morte del padre Alessandro. Nel 1728 sposò Maria Caterina Gentili una bellissima sedicenne romana da cui avrà cinque figli, la quale morì nel 1738. Nel 1729 seguì l’Infanta Maria Barbara di Braganza, di cui era maestro, nel suo trasferimento a Siviglia per via del matrimonio con Ferdinando Principe delle Asturie, per poi seguire la corte nei vari spostamenti fino a giungere definitivamente a Madrid. A Madrid ebbe molti allievi tra i quali il musicista padre Antonio Soler. Nel 1746 quando il principe Ferdinando divenne re egli fu nominato “Maestro de los Reyes”. Scarlatti non amava partecipare alla mondanità della vita di corte, ma nel tempo libero preferiva una vita ritirata, scegliendo il contatto con la vita popolare della città contatto che gli permirse di nutrirsi di quella cultura musicale locale che confluirà sapientemente  nelle sue sonate: l’imitazione dei rasgueado della chitarra, il ritmo delle castagnette ecc..gli echi dell’oriente che erano giunti precedentemente in spagna.
Alla corte di Ferdinando VI era in servizio anche il famoso cantante Farinelli, del quale divenne molto amico. A Madrid, rimasto vedovo si risposa tra il 1740 e il 1741 con Anastasia Maxarti Ximenes. Muore a Madrid il 23 Luglio 1757 nella sua casa in Calle Leganitas, attualmente segnalata con targa storica. A Madrid ancora vivono i suoi discendenti.






Domenico Scarlatti e il Clavicembalo

Domenico Scarlatti fu uno dei più grandi clavicembalisti di tutti i tempi e il suo genio di compositore si espresse soprattutto attraverso questo strumento. Scrisse 555 Sonate. Le sue sonate, prevalentemente in un solo Tempo, sono generalmente con struttura monotematica e bipartita, ma al di là di questa classificazione generica le sonate di Scarlatti godono di uno stile  unico ed originale:
 la misura diventa quella dell’attimo abbagliante, della visione fulminea che esaurisce ogni cosa visibile………….E’ tutto pieno di lontani bagliori ma quando li riporta non è per via del ricordo, è perché nel suo spirito non esistono limiti fra l’attuabile e l’ attuato, fra il passato e il presente, fra il volere e l’avere. ….Quello stare tutto in un solo Tempo è sufficiente per tradurre in musica quelle visioni sprofondate nella sua fantasia, punte acutissime dolorosamente inferte nell’anima”. (G.Confalonieri, Storia della Musica, 1975).
…La perfezione della costruzione di quelle unità (una o più battute) che si susseguono come immagini indipendenti ma concatenate e che ci rimandano facilmente all’idea di narrazione per icone già in auge del mondo classico greco-romano. La sonata scarlattiana ha molto in comune con questa pratica: trattare ogni micro-sezione come un mondo a sé e ad un tempo preludere ad una sezione che partecipa di quella precedente, spingendo in avanti il flusso narrativo.”Ogni cosa è una mezza memoria di ciò che è accaduto”.(Carlo Grante, Scarlatti e la sospensione del tempo).
Si riscontra nelle sue pagine sempre una componente teatrale, i temi sono intesi e trattati come personaggi e a volte le brevi introduzioni sono un magico sipario che si apre sulla scena sonora. Prima di lui le sonate, si rifacevano ai vari tipi di danza, egli si sgancia da questa gabbia, va oltre e cerca un’ espressività liberata da ritmiche standardizzate. Il ritmo sgorga con freschezza  e naturalezza in ogni elemento melodico in un gioco di grande fantasia dove gli elementi interiorizzati della musica conosciuta nel suo soggiorno in Portogallo e in Spagna, si propongono in maniera dirompente e pieni di freschezza. Nei brani lenti la cantabilità è imitazione della voce umana e l’accompagnamento si fa sobrio come ad evocare la sua infanzia circondata da arie e cantanti con le quali il padre Alessandro sovente provava i suoi melodrammi nella loro casa e forse per questo il senso melodico sgorga in lui  così fluido e naturale senza ricorso a nessun artifico.
L’ imitazione del carattere della musica popolare spagnola è evidente nell’uso di note estranee contenute negli accordi (probabile imitazione degli accordi di chitarra ascoltati nelle vie madrilene che il compositore amava frequentare) la valenza ritmico- percussiva si rifà al ritmo delle castagnette che richiama ai passi di danza iberici e alle ritmiche popolari suonate sulla chitarra. Non è mai, tuttavia, semplice imitazione ma sono spunti che Scarlatti fa propri e poi rielabora in un linguaggio unico e originalissimo mescolandolo al sapore tutto italiano della melodicità, un linguaggio che  esplora con  grande virtuosismo tutte le possibilità del clavicembalo, del clavicordo  o del forte-piano e che influenzerà la musica strumentale futura.